th1Giurisprudenza

CEDU, Sez. Seconda, Sentenza del 23/03/2010 - Caso: SOMMER contro ITALIA.

data 23/03/2010

La CEDU riconosce che l'A.G.M. italiana ha rispettato i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo in un procedimento per un crimine di guerra.

La Corte dichiara irricevibile il ricorso del condannato, militare tedesco riconosciuto colpevole per un crimine di guerra nel corso del secondo conflitto mondiale.

La Corte ribadisce che la imprescrittibilità dei crimini di guerra e contro l'umanità non è contraria alla Convenzione. Nella misura in cui il motivo di ricorso del ricorrente verte sulla impossibilità di trovare prove a discarico sessant’anni dopo lo svolgimento dei fatti, la Corte ritiene che questo motivo di ricorso sia strettamente legato alla questione della imprescrittibilità dei crimini di particolare gravità, puniti con la pena dell’ergastolo.

La CEDU osserva che l’avvocato del ricorrente è stato messo in condizione di partecipare all’audizione del testimone e di esercitare i diritti della difesa, ai sensi delle disposizioni della Convenzione del 1959 e del diritto interno.

Non sussiste la violazione dell’articolo 7 § 1 della Convenzione, laddove il ricorrente lamenta a torto il fatto che i tribunali interni gli avrebbero inflitto una pena più severa di quella che era applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.

Infine, la Corte ritiene che la scelta di limitare l’amnistia ai soli cittadini italiani si fondi su giustificazioni oggettive e ragionevoli, ossia la pacificazione nazionale tra cittadini italiani nel contesto straordinario del dopoguerra.


Provvedimento del 23/03/2010 Seconda Sezione             testo originale in francese           

Caso: SOMMER contro ITALIA. 

Numero del Ricorso: 36586/08

Presidente: Françoise Tulkens. 

Caso di Rilievo

Decisione

Riferimento al file originario - Sommer c. Italia.doc

STRASBURGO

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita il 23 marzo 2010 in una camera composta da:
Françoise Tulkens, presidente,
Ireneu Cabral Barreto,
Vladimiro Zagrebelsky,
Danutė Jočienė,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Işıl Karakaş, giudici,
e da Françoise Elens-Passos, cancelliere aggiunto di sezione,
Visto il ricorso sopra menzionato presentato il 22 luglio 2008,
Dopo aver deliberato, pronuncia la seguente decisione:

IN FATTO
Il ricorrente, Gerhard Sommer, è un cittadino tedesco, nato nel 1921 e residente ad Amburgo. È rappresentato dinanzi alla Corte dall’avv. Amati del foro di La Spezia.
I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
I fatti di causa, così come esposti dal ricorrente, si possono riassumere come segue.
Nell’ottobre del 1939 il ricorrente si arruolò nell’esercito tedesco e prestò servizio in un’unità delle SS. La missione ufficiale delle SS era quella di condurre azioni contro i Partigiani. La politica dell’alto comando tedesco contro la resistenza armata in Italia – la « Resistenza » - era particolarmente virulenta.
A. Il massacro di Sant’Anna di Stazzema
All’inizio dell’agosto 1944 Sant’Anna di Stazzema era stata definita dal comando tedesco «zona bianca», ossia una località idonea ad accogliere dei rifugiati.
All’alba del 12 agosto 1944 quattro reparti – ossia circa 300 soldati delle SS – si arrampicarono fino al remoto villaggio di montagna di Sant’Anna di Stazzema. Il villaggio contava allora quasi 400 abitanti e ospitava diverse centinaia di rifugiati. Gli abitanti di Sant’Anna furono radunati nei cortili delle fattorie e sulla piazza del villaggio. I soldati delle SS massacrarono tutti quelli che incrociavano per mezzo di fucili, baionette, granate o lanciafiamme. Le vittime furono principalmente donne, bambini e anziani. I soldati bruciarono i corpi e le case. L’intero villaggio fu distrutto in meno di quattro ore. In poco più di tre ore 560 persone, tra cui 116 bambini, furono massacrati.
B. L’indagine e il processo contro il ricorrente
Alla fine della seconda guerra mondiale, le autorità italiane avviarono delle indagini sui massacri della popolazione civile italiana compiuti durante la guerra, ivi compreso l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema.
Il 19 settembre 1992 il tribunale militare di La Spezia informò il ricorrente che era stata avviata un’indagine preliminare nei suoi confronti, poiché era sospettato di aver partecipato, in quanto comandante di un comando delle SS, in concorso con altri membri delle SS, al massacro di Sant’Anna di Stazzema.
Il 12 gennaio 2004 il giudice dell’udienza preliminare dispose il rinvio a giudizio del ricorrente dinanzi al tribunale di La Spezia per concorso in crimini di violenza contro civili.
Con sentenza in data 22 giugno 2005 il tribunale militare di La Spezia condannò il ricorrente all’ergastolo sulla base del combinato disposto degli articoli 13 e 185 del codice penale militare di guerra (di seguito «CPMG»), e degli articoli 575 e 577 cc. 3 e 4, e 61 cc. 1 e 4 del codice penale. Peraltro, il tribunale osservò non si poneva alcun problema dal punto di vista della prescrizione, poiché il reato di omicidio, punito con l’ergastolo, è imprescrittibile.
Secondo le sentenze di condanna «il coinvolgimento del ricorrente nei crimini di cui era accusato si fondava su prove solide». In tal modo, il tribunale stabilì che il ricorrente esercitava le funzioni di comandante della 7a compagnia del 2°e battaglione del 35° reggimento nella 16a divisione delle SS.
Secondo le sentenze di condanna ciò era dimostrato da numerose prove: un’indagine condotta da una commissione degli Stati Uniti nei giorni successivi al massacro riguardante le testimonianze di prigionieri tedeschi; sei rapporti provenienti dagli archivi americani (War Office di Washington) ottenuti tramite rogatoria e che riportavano le testimonianze di prigionieri di guerra tedeschi che affermavano che il ricorrente era il comandante della divisione, nonché la documentazione acquisita presso la Deutsche Dienststelle e la Bundesarchiv di Berlino. Il tribunale si basò, inoltre, sulle testimonianze di C., co-imputato del ricorrente che era stato interrogato per rogatoria il 21 luglio 2003 e il 15 dicembre 2003 secondo la procedura prevista dalla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959, e di B., interrogato per rogatoria il 24 novembre 2003.
Il ricorrente interpose appello avverso tale sentenza lamentando, in particolare, l’illegittimità dell’utilizzo delle dichiarazioni di C. e B., sentiti per rogatoria. Egli sosteneva che la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 non sarebbe stata applicabile nella fattispecie e che l’avvocato del ricorrente era assente durante l’interrogatorio. Il ricorrente contestava anche la qualificazione giuridica dei fatti controversi, sostenendo l’applicabilità degli articoli 174 e 175 del CPMG, che prevedevano delle pene meno severe di quelle risultanti dall’articolo 185 del CPMG.
Con sentenza in data 21 novembre 2006 la corte militare d’appello di Roma rigettò il ricorso del ricorrente e confermò la sentenza di primo grado. Per quanto riguarda l’utilizzo delle testimonianze ottenute su rogatoria, la corte d’appello confermò, da una parte, l’applicabilità, nel caso di specie, della Convenzione europea di assistenza giudiziaria e, dall’altra, osservò che ai sensi di detta Convenzione gli avvocati del ricorrenti erano stati messi in condizione di rappresentare il ricorrente durante l’interrogatorio di C. e di esercitare i diritti sanciti dalla legge italiana. Inoltre, la Corte d’appello confermò che i fatti controversi ricadevano nelle previsioni dell’articolo 185 del CPMG.
Il ricorrente presentò ricorso per cassazione ribadendo, sostanzialmente, le eccezioni sollevate nel suo appello. Il co-imputato del ricorrente R. lamentò anche la mancata applicazione del decreto del Presidente della Repubblica (D.P.R.) n. 332 del 4 giugno 1966, che prevedeva che il beneficio dell’amnistia per i crimini commessi a fini politici contro il movimento di liberazione poteva essere accordato solo ai cittadini italiani.
Con sentenza in data 8 novembre 2007, depositata in cancelleria il 25 gennaio 2008, la Corte di cassazione, ritenendo che la corte d’appello avesse motivato in maniera logica e corretta tutti i punti in discussione, respinse il ricorso del ricorrente. In particolare, la Corte di cassazione confermò che le testimonianze erano state assunte con rogatoria secondo la procedura prevista dalla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959, e sottolineò che:
«i difensori degli imputati hanno ricevuto l’avviso dell’espletando esame dei testi da parte dell’autorità straniera, di talché è innegabile che i difensori sono stati posti in condizione di assistere allo svolgimento dell’incombente istruttorio e di esercitare le facoltà inerenti al mandato difensivo»;
Per quanto riguarda il motivo di ricorso relativo alla mancata applicazione del D.P.R. n. 332 del 1966, la Corte di cassazione precisò che l’amnistia in questione
«si applica soltanto ai cittadini dello Stato italiano e non anche ai cittadini stranieri, atteso che il provvedimento di clemenza si proponeva un fine di pacificazione nazionale fra i cittadini italiani in relazione agli eventi bellici interni seguiti alla caduta del regime fascista ed alla nascita della c.d. Repubblica sociale italiana […]. Pertanto, la mancanza dello status di cittadini italiani impedisce l’applicazione del provvedimento di clemenza a favore degli imputati alla luce del testo della disposizione […] la cui legittimità costituzionale è stata contestata con argomenti privi di adeguato supporto argomentativo e comunque manifestamente infondati, dato che la scelta del legislatore di limitare l’amnistia ai cittadini italiani non può certamente considerarsi sprovvista di giustificazione ragionevole.»

II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI
Gli articoli pertinenti del codice penale militare di guerra (CPMG), entrato in vigore il 20 febbraio 1941, recitano:
Articolo 13 del CPMG
«Le disposizioni del titolo quarto, libro terzo, di questo codice, relative ai reati contro le leggi e gli usi della guerra, si applicano anche ai militari e a ogni altra persona appartenente alle forze armate nemiche, quando alcuno di tali reati sia commesso a danno dello Stato italiano o di un cittadino italiano, ovvero di uno Stato alleato (...)»
Articolo 185 del CPMG
«Il militare, che, senza necessità o, comunque, senza giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra, usa violenza contro privati nemici, che non prendono parte alle operazioni militari, è punito con la reclusione militare fino a due anni.
Se la violenza consiste nell'omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, o in una lesione personale gravissima o grave, si applicano le pene stabilite dal codice penale. Tuttavia, la pena detentiva temporanea può essere aumentata».
Articolo 174 del CPMG
«Il comandante di una forza militare, che, per nuocere al nemico, ordina o autorizza l'uso di alcuno dei mezzi o dei modi di guerra vietati dalla legge o dalle convenzioni internazionali, o comunque contrari all'onore militare, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni, salvo che il fatto sia preveduto come reato da una speciale disposizione di legge.
Se dal fatto è derivata strage, si applica la reclusione non inferiore a dieci anni.»
Articolo 175 del CPMG
«Le pene stabilite dall'articolo precedente si applicano anche a chiunque, per nuocere al nemico, adopera mezzi o usa modi vietati dalla legge o dalle convenzioni internazionali, o comunque contrari all'onore militare. Tuttavia, la pena può essere diminuita.»
Gli articoli pertinenti del codice penale, entrato in vigore il 19 ottobre 1930, recitano:
Articolo 61
Circostanze aggravanti
«Aggravano il reato le circostanze seguenti:
1) l’avere agito per motivi abbietti o futili;
(...)
4) l’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone.»
Articolo 575
Omicidio
«Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno.»
Articolo 577
Altre circostanze aggravanti. Ergastolo
«Si applica la pena dell’ergastolo se il fatto preveduto dall’articolo 575 è commesso:
(...)
3) con premeditazione
4) col concorso di taluna delle circostanze indicate nei numeri 1 e 4 dell’articolo 61 del codice penale».
Il Decreto del Presidente della Repubblica (D.P.R.) n. 332 del 4 giugno 1966 in materia di amnistia recita:
Articolo 2, primo comma
«È concessa amnistia:
a) per i reati commessi dal 25 luglio 1943 al 2 giugno 1946 da appartenenti al movimento della resistenza o da chiunque abbia cooperato con esso, se determinati da movente o fine politico (...)
b) per i reati commessi, dal 25 luglio 1943 al 2 giugno 1946, (…) da (…) cittadini che si siano opposti al movimento di liberazione, se determinati da movente o fine politico (...)».
La giurisprudenza ha, in modo uniforme, ritenuto che alla luce dell’articolo 157 del codice penale vigente prima del 2005, solo i reati puniti con l’ergastolo devono essere considerati imprescrittibili.
III. IL DIRITTO INTERNAZIONALE PERTINENTE
La Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del aprile 1959:
Articolo 1 § 1
«Le Parti Contraenti si obbligano ad accordarsi reciprocamente, secondo le dispo­sizioni della presente Convenzione, l’assistenza giudiziaria più ampia possibile in qualsiasi procedura concernente reati la cui repressione, al momento in cui l’assi­stenza giudiziaria viene richiesta, è di competenza delle autorità giudiziarie della Parte richiedente.»
Articolo 2
«L’assistenza giudiziaria potrà essere rifiutata:
a) se la domanda si riferisce a reati considerati dalla Parte richiesta come reati politici o come reati connessi con reati politici o come reati fiscali;
(...)»
Articolo 3 § 1
«La Parte richiesta farà eseguire, nelle forme previste dalla sua legislazione, le commissioni rogatorie relative ad una causa penale che le saranno trasmesse dalle autorità giudiziarie della Parte richiedente e che hanno per oggetto di compiere atti istruttori o di comunicare mezzi di prova, fascicoli o documenti.»
Articolo 4 § 1
«Se la Parte richiedente ne fa domanda espressa, la Parte richiesta la informerà della data e del luogo di esecuzione della commissione rogatoria. Le autorità e le persone in causa potranno assistere all’esecuzione se la Parte richiesta vi acconsente.»
MOTIVI DI RICORSO
Invocando l’articolo 6 della Convenzione, il ricorrente lamenta il ritardo nell’avvio del procedimento penale a suo carico.
Invocando l’articolo 6 § 3 d) della Convenzione, il ricorrente lamenta di non avere avuto la possibilità, sessant’anni dopo la perpetrazione dei fatti, di raccogliere e ottenere prove a discarico e di non avere avuto la possibilità di interrogare l’unico testimone a carico.
Invocando l’articolo 7 § 1 della Convenzione il ricorrente lamenta di essere stato condannato a una pena più severa di quella prevista all’epoca della perpetrazione dei fatti.
Invocando gli articoli 7 e 14 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 12, il ricorrente lamenta il fatto che il D.P.R. n. 332 del 1966, così come interpretato dai giudici interni, crea una disparità di trattamento ingiustificata fondata sulla nazionalità.
IN DIRITTO
1. Il ricorrente lamenta il ritardo nell’avvio del procedimento penale a suo carico, ritardo dell’ordine di cinquant’anni dopo lo svolgimento dei fatti, che sarebbe costitutivo di una violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, recita:
«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata (…) entro un termine ragionevole, da un tribunale (…) il quale sia chiamato a pronunciarsi (…) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.».
Il ricorrente afferma che le indagini sul massacro di Sant’Anna di Stazzema, iniziate nel 1947, furono inspiegabilmente sospese per cinquant’anni. Il ritardo nell’avvio del processo sarebbe esclusivamente imputabile allo Stato. Egli sostiene di non essersi mai sottratto alle indagini e per di più di non aver nascosto il suo passato né modificato la sua identità.
La Corte osserva anzitutto che la propria competenza ratione temporis è iniziata con l’entrata in vigore, il 1° agosto 1973, del diritto di ricorso individuale per l’Italia. Di conseguenza, essa non è competente per esaminare i motivi di ricorso che comportano delle affermazioni di violazione fondate su fatti avvenuti prima di tale data. Per di più, la Corte constata che il ricorrente si lamenta esclusivamente per il periodo che precede l’avvio del procedimento a suo carico.
Quanto ai fatti sopraggiunti dopo il 1° agosto 1973 e prima del 19 settembre 1992, data in cui il ricorrente fu informato dell’avvio di un’indagine preliminare nei suoi confronti, la Corte ricorda che il suo compito consiste anzitutto nel determinare se l’articolo 6 della Convenzione sia applicabile nel caso di specie. Tale articolo entra in gioco solo quando una «accusa in materia penale» viene formulata contro una determinata persona (sentenze Neumeister c. Austria del 27 giugno 1968, serie A n. 8, p. 43, § 23, e AGOSI c. Regno Unito del 24 ottobre 1986, serie A n. 108, p. 22, § 65), ossia dopo che quest’ultima ha ricevuto una «notifica ufficiale, da parte dell’autorità competente, del fatto che le è ascritta la perpetrazione di un reato» (sentenza Deweer c. Belgio del 27 febbraio 1980, serie A n. 35, p. 24, § 46) o che è oggetto di «misure che implicano un tale addebito e comportano, anch’esse, delle ‘ripercussioni importanti sulla situazione’ della persona sospettata» (sentenza Foti e altri c. Italia del 10 dicembre 1982, serie A n. 56, p. 18, § 52). Le garanzie procedurali stabilite dall’articolo 6 non sono in linea di principio applicabili alle varie misure preventive che possono essere adottate nell’ambito di una inchiesta penale prima che sia «formulata una «accusa in materia penale», come l’arresto o l’audizione di un indagato (sentenze Fayed c. Regno Unito del 21 settembre 1994, serie A n. 294-B, pp. 47-48, § 61, e Saunders c. Regno Unito del 17 dicembre 1996, Recueil des arrêts et décisions 1996-VI, p. 2064, § 67).
Nel caso di specie, è vero che già nel 1947 le autorità italiane avevano avviato delle indagini sui massacri di Sant’Anna. Tuttavia, dal fascicolo risulta che, all’epoca, tali indagini non erano sfociate in un atto d’accusa nei confronti del ricorrente ai sensi della giurisprudenza della Corte. Solo a partire dal 19 settembre 1992, data in cui il ricorrente fu informato dell’avvio di un’indagine preliminare nei suoi confronti, egli ha risentito gli effetti delle indagini e l’inchiesta ha avuto delle importanti ripercussioni sulla sua situazione (v., mutatis mutandis, Pysson c. Belgio (dec.), n. 38543/03). Alla luce di quanto precede, e tenuto conto del fatto che il motivo di ricorso del ricorrente riguarda esclusivamente il periodo che precede l’avvio del procedimento a suo carico, la Corte giunge alla conclusione che l’elemento penale dell’articolo 6 non è applicabile per quanto riguarda il periodo che precede il 19 settembre 1992. Ne consegue che questo motivo di ricorso è incompatibile ratione temporis per il periodo che precede il 1° agosto 1973, e ratione materiae per il periodo successivo, e deve essere rigettato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
2. Il ricorrente lamenta l’iniquità del procedimento penale intentato nei suoi confronti in quanto non ha potuto interrogare C., l’unico testimone a carico, e a causa dell’impossibilità, sessant’anni dopo lo svolgimento dei fatti in questione, di raccogliere e ottenere prove a discarico. Egli sostiene che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 3 d) della Convenzione. Le parti pertinenti dell’articolo 6 recitano:
«1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, (…) da un tribunale (…) il quale sia chiamato a pronunciarsi (…) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. (…).
«3. In particolare, ogni accusato ha diritto di:
(...)
d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;».
a) Nella misura in cui il motivo di ricorso del ricorrente verte sull’impossibilità di interrogare il testimone C. durante il suo processo, la Corte ricorda che l’ammissibilità delle prove è regolata in primo luogo dalle norme del diritto interno e che, in linea di principio, sono le giurisdizioni nazionali a dover valutare gli elementi dalle stesse raccolti. La missione affidata alla Corte dalla Convenzione non consiste nel pronunciarsi sulla questione di stabilire se delle deposizioni testimoniali siano state giustamente ammesse come prove, ma nel verificare se il procedimento globalmente considerato, ivi compreso il modo di presentazione dei mezzi di prova, abbi rivestito un carattere equo (sentenza García Ruiz c. Spagna [GC], n. 30544/96, CEDU 1999-I, § 28). In particolare, gli elementi di prova devono in linea di principio essere prodotti dinanzi all’imputato in pubblica udienza, ai fini di un dibattimento in contraddittorio. Questo principio non è privo di eccezioni, che tuttavia possono essere ammesse solo con riserva dei diritti della difesa; in generale, i paragrafi 1 e 3 d) dell’articolo 6 impongono di accordare all’imputato un’occasione adeguata e sufficiente di contestare una testimonianza a carico e di interrogarne l’autore, al momento della deposizione o in seguito (sentenze Van Mechelen e altri c. Paesi Bassi del 23 aprile 1997, Recueil 1997-III, p. 711, § 51, e Lüdi c. Svizzera del 15 giugno 1992, serie A n. 238, p. 21, § 49). Inoltre, i diritti della difesa vengono limitati in maniera incompatibile con le garanzie dell’articolo 6 quando una condanna si basa, unicamente o in misura determinante, sulle deposizioni di un testimone che l’imputato non ha potuto interrogare o far interrogare né durante la fase istruttoria né durante il dibattimento (sentenze A.M. c. Italia, n. 37019/97, CEDU 1999-IX, § 25; Saïdi c. Francia del 20 settembre 1993, serie A n. 261-C, pp. 56-57, §§ 43-44).
Nella fattispecie, il testimone C. è stato interrogato per rogatoria secondo la procedura prevista dalla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959. Dal fascicolo risulta che l’avvocato del ricorrente è stato messo in condizione di partecipare all’audizione del testimone e di esercitare i diritti della difesa, ai sensi delle disposizioni della Convenzione del 1959 e del diritto interno.
In ogni caso, la Corte osserva che le dichiarazioni di C. non costituivano affatto l’unico elemento di prova sul quale i giudici di merito hanno fondato la condanna del ricorrente. Vi si aggiungevano, infatti, le testimonianze di vari prigionieri di guerra raccolte dalle autorità americane, la testimonianza di B. nonché la documentazione acquisita presso il War Office di Washington, della Deutsche Dienststelle e della Bundesarchiv di Berlino.
In queste condizioni, la Corte non può concludere che l’impossibilità di interrogare il testimone C. durante il suo processo abbia pregiudicato i diritti della difesa al punto da violare i paragrafi 1 e 3 d) dell’articolo 6 della Convenzione.
Ne consegue che questa parte del motivo di ricorso deve essere rigettata in quanto manifestamente infondata, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 del la Convenzione.
b) Nella misura in cui il motivo di ricorso del ricorrente verte sulla impossibilità di trovare prove a discarico sessant’anni dopo lo svolgimento dei fatti, la Corte ritiene che questo motivo di ricorso sia strettamente legato alla questione della imprescrittibilità dei crimini di particolare gravità, puniti con la pena dell’ergastolo.
La Corte ha avuto modo di ricordare molte volte la funzione di garanzia che svolge il meccanismo della prescrizione. Secondo la sua giurisprudenza «i termini di prescrizione hanno varie finalità importanti, ossia garantire la sicurezza giuridica fissando un termine alle azioni, porre le persone potenzialmente chiamate in giudizio al riparo da denunce tardive dalle quali è forse difficile difendersi, e impedire l’ingiustizia che potrebbe verificarsi se i tribunali fossero chiamati a pronunciarsi su fatti accaduti in un passato lontano a partire da elementi di prova ai quali non si potrebbe più prestare fede e che sarebbero incompleti a causa del tempo trascorso» (Stubbings e altri c. Regno Unito, 22 ottobre 1996, § 51, Recueil 1996 IV).
Nel contempo, la Corte sottolinea l’importanza degli obblighi derivanti dagli articoli 2 e 3 della Convenzione, che implicano il dovere di adottare delle disposizioni in materia penale che sanzionino effettivamente le gravi inosservanze dei diritti riconosciuti e di applicarle in pratica per mezzo di un’indagine e di azioni penali effettive (Osman c. Regno Unito, 28 ottobre 1998, Recueil 1998 VIII; M.C. c. Bulgaria, n. 39272/98, CEDU 2003 XII).
La Corte ricorda infine che ha esaminato varie volte cause relative a crimini contro l’umanità, imprescrittibili con riguardo al diritto internazionale, e che, in tali cause, non ha mai considerato che tale imprescrittibilità fosse contraria alla Convenzione (Papon c. Francia (n. 2) (dec.), n. 54210/00, CEDU 2001 XII (estratti); Touvier c. Francia, n. 29420/95).
La Corte non può dunque considerare contraria all’articolo 6 una limitazione dei diritti della difesa derivante da difficoltà che non vanno oltre a quelle che comporta inevitabilmente un’azione penale che, per effetto del meccanismo dell’imprescrittibilità, ha potuto essere condotta varie decine di anni dopo la perpetrazione dei fatti.
Inoltre, la Corte osserva che gli elementi a carico sono stati presentati e discussi in contraddittorio dinanzi ai giudici di merito e che il ricorrente, di persona o per il tramite dei suoi avvocati, ha potuto far valere tutti gli argomenti che ha ritenuto utili alla difesa dei suoi interessi e presentare i mezzi di prova in suo favore. In particolare, ha potuto effettivamente dare la propria versione dei fatti (v., mutatis mutandis, Papon c. Francia (n. 2) (dec.), n. 54210/00, CEDU 2001 XII (estratti).
Ne consegue che questo motivo di ricorso deve essere rigettato in quanto manifestamente infondato in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
3. Il ricorrente lamenta il fatto che i tribunali interni gli avrebbero inflitto una pena più severa di quella che era applicabile al momento in cui il reato è stato commesso, contrariamente alle esigenze dell’articolo 7 § 1 della Convenzione, che dispone:
«Nessuno può essere condannato per una azione od omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo la legge nazionale o internazionale. Parimenti non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato».
La Corte constata che il ricorrente è stato condannato in virtù del combinato disposto degli articoli 13 e 185 del codice penale militare di guerra e degli articoli 575 e 577, cc. 3 e 4 e 61 cc. 1 e 4 del codice penale, applicabili al momento dei fatti, il che non viene contestato dal ricorrente.
Il motivo di ricorso riguarda quindi, in sostanza, la qualificazione giuridica dei fatti applicata dai tribunali interni.
Se, ai sensi dell’articolo 19 della Convenzione, la Corte ha il compito di assicurare il rispetto degli obblighi derivanti dalla Convenzione per gli Stati contraenti, essa non ha il compito di esaminare gli errori di fatto o di diritto presumibilmente commessi da una giurisdizione, salvo se e nella misura in cui essi possono aver pregiudicato i diritti e le libertà salvaguardati dalla Convenzione. Inoltre, spetta in primo luogo alle autorità nazionali, e singolarmente alle corti e ai tribunali, interpretare e applicare il diritto interno (v., tra molte altre, K.-H.W. c. Germania [GC], n. 37201/97, § 44, CEDU 2001 II (estratti).
La Corte non ha il compito di pronunciarsi sulla responsabilità penale individuale del ricorrente, poiché tale valutazione incombe in primo luogo ai giudici interni, ma quello di esaminare sotto il profilo dell’articolo 7 § 1 della Convenzione se, al momento in cui è stata commessa, l’azione del ricorrente costituiva un reato definito in maniera sufficientemente accessibile e prevedibile dal diritto interno (K.-H.W. c. Germania [GC], già cit., § 46).
Alla luce dei principi stabiliti in materia dalla Corte, nulla porta a concludere che la legge controversa mancasse di chiarezza o di prevedibilità o che i giudici nazionali abbiano dato una interpretazione arbitraria degli articoli pertinenti del codice penale militare di guerra, vigenti all’epoca in cui i reati ascritti all’interessato sono stati commessi.
Di conseguenza questo motivo di ricorso deve essere rigettato in quanto manifestamente infondato, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
4. Il ricorrente lamenta il fatto che l’applicazione dell’amnistia ai soli cittadini italiani costituisce una discriminazione fondata sulla nazionalità ai sensi del combinato disposto degli articoli 14 e 7 della Convenzione e dell’articolo 1 del Protocollo n. 12. L’articolo 14 recita:
«Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella (…) Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione.»
Il Protocollo n. 12 recita:
«1. Il godimento di ogni diritto previsto dalla legge deve essere assicurato, senza discriminazione alcuna, fondata in particolare sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l'origine nazionale o sociale, l'appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.
2. Nessuno può essere oggetto di una discriminazione da parte di una qualsivoglia autorità pubblica che sia fondata segnatamente sui motivi menzionati nel paragrafo 1».
Quanto al motivo di ricorso basato sul combinato disposto dell’articolo 14 e dell’articolo 7 della Convenzione, la Corte osserva che il ricorrente non ha sollevato tale doglianza dinanzi alla Corte di cassazione. Dal fascicolo risulta che questo motivo di ricorso è stato proposto unicamente da R., coimputato del ricorrente. Anche a voler supporre che il ricorrente abbia esperito le vie di ricorso interne, la Corte osserva che il D.P.R. n. 332 del 1966, così come interpretato dai giudici interni, crea una distinzione di trattamento fondata sulla nazionalità. Nella fattispecie, senza esaminare l’opportunità e la necessità di prevedere un’amnistia per alcuni crimini particolarmente gravi, la Corte ritiene che la scelta di limitare l’amnistia ai soli cittadini italiani si fonda su giustificazioni oggettive e ragionevoli, ossia la pacificazione nazionale tra cittadini italiani nel contesto straordinario del dopoguerra. Di conseguenza essa ritiene che questo motivo di ricorso deve essere rigettato in quanto manifestamente infondato, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
Per quanto riguarda il motivo di ricorso relativo alla violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 12, la Corte ricorda che l’Italia non ha ancora ratificato tale Protocollo. Ne consegue che questa parte del motivo di ricorso deve essere rigettata ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4, in quanto incompatibile ratione personae con le disposizioni della Convenzione.

Per questi motivi la Corte, all’unanimità,
Dichiara il ricorso irricevibile.
Françoise Elens-Passos Françoise Tulkens
Cancelliere aggiunto Presidente
(TRADUZIONE NON UFFICIALE A CURA DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA)
Per traduzione conforme
L’esperto linguistico C1
Martina Scantamburlo